L’ormai, attiva e fattiva collaborazione che il Lions Club di Acri riesce ad avere con le varie Associazioni acresi, consente il raggiungimento di molti risultati, i cui requisiti si concretizzano in service di qualità ed ampliano le opportunità da parte di noi Lions acresi di inserirci e meglio comprendere le esigenze presenti nel contesto territoriale, risultando, nella nostra realtà cittadina, un riferimento culturale e sociale ma anche come agenti divulgatori delle problematiche esistenti.

E’ il caso della rassegna di teatro dialettale, che il Lions Club di Acri, ha organizzato insieme al Comitato Pro Centro Storico ed alla sezione FIDAPA di Acri, che ci ha consentito di effettuare il Service Distrettuale “Difendiamo la lingua italiana attraverso la valorizzazione dei dialetti locali”. Questa rassegna, ci ha consentito di effettuare un’operazione di avvicinamento dei giovani e delle famiglie al teatro. La risposta del pubblico non è mancata, infatti in entrambe le serate si è fatto il tutto esaurito.

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La prima opera teatrale era ispirata all’Avaro di Moliere, ma vissuta nei giorni nostri in un paesino della Calabria nell’alto ionio cosentino.

La rappresentazione fatta da attori di una compagnia amatoriale che hanno offerto la loro capacità e la loro passione per il teatro per il solo gusto di divertirsi insieme al pubblico.

Ben più consistente la seconda opera ispirata alla storia del brigantaggio calabrese.

Di cui Peppino Gallo ha scritto: “I briganti della Città del Sole”, per la regia di William Gatto, presidente dell’associazione turistico-culturale “Parco Tommaso Campanella”, fondata a Cosenza nel 2001. I temi della rappresentazione hanno un legame forte con i principi di base della repubblica universale che il filosofo di Stilo vagheggiava nella sua opera maggiore, La città del Sole, scritta nel 1602.

La rappresentazione si rifà alla storia del brigantaggio in Calabria nel sec. XVI, incentrata su uno dei principali personaggi, Marco Berardi, discendente da famiglia nobile, nato a Mangone. Sospettato di eresia, per essersi avvicinato ai Valdesi, fu rinchiuso nelle carceri dell’Inquisizione a Cosenza, da cui riuscì ad evadere, nascondendosi nei boschi della Sila Grande, a capo di una numerosissima banda, e diventando acerrimo nemico degli Spagnoli e dell’Inquisizione. Istruito, il Berardi riteneva che, dopo gli studi, bisognava abbandonare i libri e combattere per gli ideali di giustizia e libertà. Opponendosi agli interessi della sua stessa casta di appartenenza, quando esplose la rivolta antibaronale in Calabria, durante la crisi economica, aveva scritto e divulgato un programma in cui teorizzava l’appartenenza delle terre ai contadini e la distribuzione dei prodotti secondo i bisogni, le esigenze di ciascuno. Le sue gesta ebbero termine nel 1563, allorché ricadde in disgrazia del tribunale dell’Inquisizione.

Nel prologo, costituito da un monologo, oltre ai riferimenti alla drammaturgia della pièce, alla regia della messa in scena, una fattucchiera accenna al pubblico, mimando sortilegi, sollecitandolo a usare al massimo la propria fantasia. Poiché la rappresentazione è priva di allestimenti scenografici è necessario che lo spettatore arrivi a un’ambientazione mentale, facendo leva anche sul principio che recitare è sì una cosa che si fa per finta, ma ci si deve credere per davvero. È questa la regola perché il gioco funzioni, perché il pubblico cominci a pensare a Marco Berardi e agli altri personaggi muoversi in spazi mentali.

Terminato il monologo della fattucchiera, comincia quello del narratore, nell’antiprologo, carico di dettagli nel rievocare eventi storici, con un linguaggio aulico. Attraverso i temi della libertà e dell’emancipazione dei popoli, dal brigantaggio calabrese nel Cinquecento si passa al 1789, anno della rivoluzione francese, e al 1799, quando le forze legittimiste abbattono la Repubblica Partenopea, e le altre repubbliche italiane; poi al Risorgimento e di nuovo, dopo la Proclamazione del Regno d’Italia nel 1861, al brigantaggio in Calabria, mentre il pubblico cerca di capire il nesso fra storia e teatro, aspettando che gli venga riconfermata la capacità del teatro di indagare, riflettere e analizzare la storia dell’uomo, così come è stato nel rapporto fra scienza e palcoscenico. “Oggi ci sono altre possibilità di fare teatro”, ha scritto Luca Ronconi, “per esempio attraverso lo spazio e la dilatazione (o la contrazione) del tempo che sono diventate delle figure teatrali, delle figure drammaturgiche da usare.

Esattamente come il dialogo e il personaggio, che sono stati usati per secoli”. Ed è in virtù di questo che i punti diversi da cui i personaggi entrano in scena ci fanno immaginare altre ambientazioni scenografiche.

Proprio quando il monologo del narratore, piuttosto lungo, sembra che si trasformi in una noiosa dissertazione didascalica, descrittiva, il testo drammaturgico di Gatto ritorna al teatro di parola, ricorre al personaggio, con l’entrata in scena di Marco Berardi, il protagonista, da una porta laterale, che si spalanca sbattendo.

È questa comparsa a ridarci le coordinate di base dell’arte teatrale, a ricordarci che il teatro è anche di situazione, è agito; il posto dove le storie, piuttosto che essere raccontate, accadono, e cioè prendono consistenza solida di gesti, risate, pianti, contatti fisici, rumori.

Il Berardi va sul pubblico con intensità estrema, con impeto; aggirandosi fra gli spettatori li porta a sostenere l’ascolto, a fare quasi da contrasto, ad arrivare alla controscena. Lo spettatore teatrale tiene inconsapevolmente una macchina da presa ben sistemata nel cervello; è un atteggiamento psicologico che gli impone di inquadrare diversamente le immagini prodotte dall’attore; e il regista ha voluto sfruttare questa possibilità, far usare di volta in volta al pubblico gli obiettivi che tiene nel cranio, quando il Berardi gira in sala, va oltre le sue spalle, in fondo alla sala, da cui giunge, ben impostata, la voce, cambiando di altezza, intensità, tono. Lo spettatore non è più passivo, ma fortemente immedesimato (magari in uno dei briganti, o in un contadino), immaginando di trovarsi in una radura fra i boschi della Sila Grande, mentre ascolta rapito i discorsi trascinatori di Re Marcone (appellativo del Beradi) sulla libertà. Anche gli altri attori, una volta entrati in scena, suscitano nel pubblico questo effetto.

E non poteva mancare che la rappresentazione non si rifacesse al brigantaggio acrese, con il personaggio di Jaccapitta che, al tentativo fallito di occupare Bisignano, saccheggiò, incendiò Acri; eccidio che sfociò in atti di cannibalismo. Fu catturato dal generale Verdier e giustiziato in piazza.

In questa pièce di William Gatto sembra ci siano dei riferimento ai canovacci della commedia classica, di carattere; anche per i canti popolari, nell’intermezzo, accompagnati con l’organetto, e i balli ritmati di tarantella.

La taverniera dei briganti, che entra nell’ultima scena, non può non farci pensare all’opera di Goldoni, La locandiera (1753). Già dalle prime battute, anche in questa Mirandolina brigantesca, viene imitata l’espressione di quella goldoniana, lo spirito brioso, le facili arguzie.

La diversità sta solo nella spazio e nel tempo in cui agiscono i due personaggi. Salita sul palco, dal lunghissimo cucchiaio di legno che tiene in mano, e che infine lecca, noi riusciamo a immaginare la rustica cucina della sua taverna. Ora ci si aspetta un susseguirsi di colpi di scena, si comincia a pensare al teatro agito, invece, la Mirandolina dei briganti sfonda la quarta parete, viene alla ribalta, e fa l’animatrice, coinvolgendo gli spettatori con i suoi frizzi, con gesti ben coordinati al ritmo delle battute, una recitazione dal colore confidenziale. Di tanto in tanto nel suo monologo c’è una dilatazione del tempo, e si ritorna al teatro raccontato: parla delle sue vicissitudini, per informarci sul ruolo che il suo personaggio svolge nella drammaturgia, nella storia rappresentata, ma poi rincalza subito con tono brioso. Ma, mentre lo scopo della Mirandolina goldoniana era quello di far ricapitolare il Cavaliere di Ripafratta, inguaribile misogino, qui la taverniera condivide invece gli ideali di Marco Berardi e i bisogni del popolo.

Un altro esempio di riferimento alla storia del teatro ci viene dato dal dubbio amletico di uno dei capibanda di Berardo, irrisoluto sia davanti alle sconfitte che alle vittorie, al punto da tradirlo passando dalla parte dei baroni, degli Spagnoli, del tribunale dell’Inquisizione.

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Partita con il piede giusto, ci è sembrato che la compagnia dell’associazione “Parco Tommaso Campanella” abbia dato una prova notevole di professionismo. Un ritorno al teatro di qualità in Calabria è già in atto, e auspichiamo che ciò possa avvenire anche ad Acri, nel nostro paese, grazie ainiziative istituzionali, di associazioni, capaci di offrire un programma di rappresentazioni, di promuovere cultura in modo indiscriminato, di sostenere la nascita di laboratori teatrali, di compagnie. È ormai risaputo che, fra gli attori professionisti, molti si sono formati e provengono dal teatro amatoriale.